Per Passione. Vorrei ma non mollo.

“Quando lascio andare ciò che sono, 

divento ciò che posso essere”

(Lao Tzu)

Apro le news, i miei canali social, chiacchiero con le amiche e il tema ultimamente è ricorrente… la sconfitta delle mamme che provano a lavorare (volendolo fare per realizzazione personale e non per necessità). Ricorre il tema “non ce l’ho fatta”. E non posso non chiedermi cosa provo a riguardo. Credo di pensarlo almeno un volta al giorno, di non farcela, di non avercela fatta.

L’ansia di stare sempre a rincorrere il tempo per non voler rinunciare alle cose, oltre la maternità, che mi rendono piena come donna, senza togliere niente a figli, amici, marito, casa, è costante e termina spessissimo con la consapevolezza di non essere riuscita a fare tutto. O comunque di non averlo fatto come avrei dovuto, o voluto.

Non voglio stare qui a rimarcare una volta di più quanto sia complesso. Le motivazioni sociali, imprenditoriali e culturali sono evidenti e sotto gli occhi di tutti oltre che elencate nel quantitativo sempre crescente di articoli sul tema. La maggior parte delle aziende non vuole mamme nei ruoli importanti perché la mentalità dominante è premiare quanto vivi per l’azienda, non il valore aggiunto che riesci a dare nonostante tu per l’azienda non viva.

bolle Io sono stata innamorata del mio lavoro per tantissimo tempo. Poi sono diventata madre una prima ed una seconda volta ed è cambiato tutto. Sono rimasta innamorata del mio lavoro ma l’azienda alla quale avevo dato tanto e che tanto mi aveva a sua volta dato, non ha visto abbastanza valore in quello che ancora avevo da dare (o almeno questo è quello che mi ha lasciato credere). Sono stati formalmente irreprensibili ma benché il mio impegno in termini di produttività e passione (e forse di potenziale di crescita) fosse rimasto immutato, ero ormai diventata un elemento di serie B. Avrei potuto tornare ai momenti d’oro? Si, certo che si. A patto da non lasciare mai che la mia nuova famiglia comportasse riorganizzazione per l’azienda. A patto che io tornassi ad essere esattamente quella che ero prima della nascita dei miei figli. Ma le mamme, tutte, sanno che questo non può essere. E non in termini di organizzazione della vita. Il cambiamento è molto più in profondità e quello che penso è che sia una trasformazione che correttamente incanalata ci rende esseri umani più forti, più creativi, più determinati e pragmatici. Ma ci vuole coraggio ad investire su aspetti che si traducono in maggiore qualità ma in questo caso anche minor tempo. Così sono andata via scegliendo un’altra strada professionale, meno sicura, meno chiusa, nella quale potessi dare senso al tempo che passavo lontana dai miei figli, costruendo il mio nuovo mondo.

Perché il punto è proprio questo. Fatta eccezione per quelle situazioni in cui la professione rappresenta condizione irrinunciabile di sopravvivenza per sé stessi ed i propri cari per cui si accetta qualsiasi (o quasi) condizione di lavoro, quando arrivano i figli (o altre situazioni che improvvisamente scalano rapidamente l’ordine delle nostre priorità), non ci si può non rendere conto del “costo” che ha il tempo passato lontani da casa se quel tempo non trova il giusto senso nella vita. Non si tratta più di non farcela con i tempi, la stanchezza, la frustrazione, uno stipendio non adeguato e via dicendo. Entra in gioco il senso di colpa, la protezione di noi stessi e di chi più amiamo al mondo. Vengono improvvisamente fuori in modo macroscopico ed insopportabile tutti i motivi per cui vorremmo mollare. E se prima di essere genitore venivano sopiti da scuse e paure facilmente gestibili dopo non è più possibile. noi-treE’ il compromesso con il cuore che non è possibile fare. A meno che il lavoro non sia esso stesso parte di quella vita che ci siamo scelti e che ci rende pieni, veri, energici. A meno che anche la professione, in qualche modo, non sia destinataria del nostro amore. Anche quando è stancantissimo, anche quando è ingiusto, anche quando commettiamo errori. Ma è anch’essa ciò per cui “vale la pena”, perché è come un affetto in più, perché anche con quello non è solo questione di dovere, ma di cuore.

E allora qual è la strada? Cito Steve Jobs nel suo discorso all’Università di Stanford nel 2005.

“L’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi”.

Che c’entra questo con quello che ho appena scritto? C’entra. Tantissimo. Perché a meno che non ci si arrenda definitivamente all’idea che realizzazione personale e maternità siano due concetti inconciliabili, sarà necessario lottare e lottare duramente. Perché nessuno verrà a darci una mano. E soprattutto, sapendo che il prezzo della nostra vita professionale è spesso pagato dai nostri cari nella misura in cui ci siamo poco per loro, dare un senso qualitativo a quello che facciamo è fondamentale. Comprendere che il tempo che passiamo al lavoro è parte integrante della nostra vita e non una parentesi fra la scuola la mattina e il bagnetto la sera anche. Davanti alla stanchezza, alla confusione, al pericolo di perdere gli affetti, alle ingiustizie e all’indifferenza altrui avremo sempre voglia di mollare, perché è umano. Per non farlo, quello per cui lottiamo deve essere qualcosa di grande, di bello, che amiamo. Deve essere passione oltre che dovere.

Questo non abbasserà lo stress, né mitigherà la stanchezza. Non risparmierà da arrabbiature e delusioni né ci renderà genitori o compagni migliori. Ma quando arriveranno i momenti in cui ci chiederemo se ne vale la pena, allora forse, la risposta sarà si. A prescindere dalla nostra capacità di organizzarci la vita in modo adeguato. E quella risposta affermativa potrebbe essere quella che davanti all’evidenza di non essere riusciti comunque a gestire tutto come avremmo pensato di voler fare, ci permetterà, comunque, di non mollare.

Finché l’intero equilibrio della nostra psiche sarà nelle mani di altri (datore di lavoro, tata, nonni, organizzazione scolastica, ecc) con l’aspettativa che essi comprendano esigenze per noi chiarissime, continuerà ad essere tutto un delirio. Cercare l’ordine dove non può essercene lo è anch’esso. Le decisioni che influiscono sui tempi e modi della nostra vita riguardano noi. Il resto è contorno. integraresrlIl cambiamento, la ricerca forte e decisa di quello che ci fa stare bene o che comunque rappresenta “verità” nella nostra vita, non significa non avercela fatta. Al contrario significa non essersi arresi alle cose obbligate. E’ faticoso, anche solo da comprendere credo. E’ un lavoro di per sé impostare la vita in quest’ottica ma credo che sia qualcosa su cui soffermarsi, se non altro, a riflettere. E’ difficilissimo per me spiegare questo concetto così all’apparenza utopico ma al tempo stesso per me molto saldo e concreto. Più che un modo di fare e un suggerimento per agire si tratta di qualcosa a cui tendere e potrebbe anche succedere di non arrivarci mai.

wonder-woman-1694801_1920Io personalmente ancora non ci sono riuscita. Faccio un milione di cose cercando di capire cosa effettivamente rappresenti “la mia strada” ma mi perdo facilmente. E sono così stanca che a volte vorrei solo aprire le mani e lasciare andare tutto. E a quel punto mi chiedo… perché non lo fai? Perché non lasci andare qualcosa? E la risposta è che dovrei iniziare dalle cose che amo di più e non lo voglio fare. Non ho voglia, come è stato in passato, di mollare. Perché fra tutte le cose folli della mia vita ci sono, anche, quelle senza le quali, nonostante gli errori e la stanchezza, mi sentirei un po’ meno Me. Quando mi chiedono “ma come fai a far tutto”? Vorrei rispondere, senza apparire banale… Per passione.

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